«Preghiera per la smarrita»

ПОЛИТИКА

Artem ansimava, stretto nella morsa di un terrore muto e vischioso. Non dormiva, si rigirava su lenzuola che sembravano carboni ardenti. Ogni fruscio oltre la finestra, ogni scricchiolio della vecchia casa gli stringeva il cuore in un’attesa angosciosa. Attendeva il suono della chiave nella serratura, i passi leggeri e rapidi nell’ingresso, le risate felici della figlia che sempre riempivano la casa di luce. Ma la casa taceva. Taceva così forte che nelle orecchie gli rimbombava un silenzio assordante.

La sete, secca e graffiante, lo costrinse infine ad alzarsi. Si trascinò lungo il corridoio buio come un fantasma, e la mano si tese da sola verso la maniglia della porta della stanza di sua figlia. Guardò dentro, già sapendo cosa avrebbe visto. Il chiarore lunare, freddo e imparziale, cadeva sul letto vuoto e perfettamente rifatto. Nell’aria aleggiava ancora il sottile profumo dei suoi cosmetici – un intreccio di agrumi e gelsomino, che ad Artemo ormai sembrava l’odore stesso della disgrazia.

— Vera! — la sua voce roca di insonnia ruppe il silenzio come uno sparo. Scosse la moglie per le spalle, immersa in un sonno agitato e superficiale. — Ver, Alice non è tornata. È ancora fuori!

— La prima volta, forse? — mormorò lei, girandosi dall’altra parte senza aprire gli occhi. — Sarà rimasta da Lena. Tornerà al mattino.

— Ma sono già le quattro, Vera! Le quattro! — il suo grido era così disperato che la donna si sollevò di colpo a sedere, gli occhi spalancati da una consapevolezza improvvisa e glaciale.

— Le quattro? Dio mio… No, non è un caso. Le è successo qualcosa! Dev’essere successo qualcosa!

Le ore fino all’alba si dilatarono in un’eternità. Non parlarono: si agitavano per l’appartamento come bestie ferite, si affacciavano di continuo alle finestre, sobbalzavano a ogni rumore del cortile. Alle otto in punto, senza concedersi un attimo di esitazione, correvano già verso l’università, aggrappati a una speranza sempre più fragile: che la figlia, così responsabile e puntuale, sarebbe comparsa almeno alla prima lezione.

Ma Alice non c’era. Né alla prima, né alla seconda. Nessuno l’aveva vista né ieri, né oggi. I compagni scrollavano le spalle, i professori aggrottavano la fronte con stupore. Il mondo, ancora ieri solido e sicuro, si era incrinato: da quella crepa si riversava su Artemo e Vera una tenebra assoluta.

Cominciarono le telefonate. Prima misurate, poi sempre più isteriche. Amiche, amici, ospedali… Prima i pronto soccorso, poi i reparti di accettazione… e infine, le parole più agghiaccianti: “obitori”. Ogni squillo, ogni risposta “no, non è arrivata”, era una nuova fitta nel cuore. La disperazione di Vera sfociò in un lamento monotono, ossessivo. Si percuoteva la testa contro il muro: Artemo riuscì appena a sorreggerla prima che svenisse.

— Bisogna andare alla polizia, — sussurrò lei, con la voce carica della resa di una nave che affonda.

Alice fu cercata per due mesi. Due interminabili mesi composti di ventiquattro ore di torturante incertezza. Tutti si unirono alle ricerche: i compagni tappezzavano la città di volantini, i vicini telefonavano ai parenti lontani, i volontari setacciavano i parchi. Ogni giorno iniziava con una preghiera e terminava in lacrime amare. Ogni squillo di telefono poteva essere un messaggio di salvezza o una condanna.

Vera non resse. Una mattina Artemo la trovò in cucina, pallida, con le labbra bluastre, stringendosi il petto. L’ambulanza, l’iniezione, il ricovero: diagnosi di sindrome coronarica acuta. Rimase solo con il suo dolore, cupo e muto come una roccia. Stava ormai cedendo. Quasi.

E all’improvviso — una scintilla. Debole, ma viva. Una compagna di Alice, timida e spaventata, durante un interrogatorio lasciò cadere poche parole:
— Lei… una volta aveva detto… che sarebbe andata in convento…

Artemo rimase muto. Gli parve d’aver udito male.
— Dove? In quale convento? Sei sicura di non sbagliarti?
— Non so quale, lo giuro! Ma ne aveva parlato. Dopo che… dopo che Arsenij l’ha lasciata. Allora disse che non voleva più vivere…

Per la prima volta Artemo sentì quel nome. Arsenij. Gli suonò estraneo e doloroso.

La ragazza raccontò tutto: di un amore grande, segreto, passionale. Di progetti di matrimonio dopo la laurea. E di quel giorno in cui Alice, raggiante al mattino, tornò distrutta la sera: Arsenij, il suo Arsenij, aveva lasciato l’università. Di sua volontà. Il telefono muto, i profili cancellati. Svanito, lasciando dietro di sé solo vuoto e tradimento.

E allora, piangendo nel cuscino, Alice aveva urlato: “Non amerò mai più nessuno! Non ho motivo di vivere! Me ne andrò in convento, per non vedervi mai più!”

Quelle parole, allora trascurate, ora tornavano come un’eco agghiacciante.

Le ricerche ripresero con nuova, disperata energia. Dopo giorni di indagini, si scoprì finalmente il nome di un piccolo monastero, antico, nascosto nei boschi. Artemo era pronto a precipitarsi lì subito, ma l’ufficiale incaricato li fermò: bisognava agire con delicatezza. E propose l’aiuto di un uomo insolito: un ex-psicologo di nome Mark.

Mark appariva come un relitto: spettinato, non rasato, odoroso di alcol. Raccontò la sua storia di caduta: brillante professionista un tempo, ma distrutto dall’abbandono della moglie, precipitato nell’alcol e nel vuoto. Eppure, dentro di lui restava ancora una scintilla: accettò di andare.

Il mattino al monastero era silenzioso, quasi sospeso. Alice non dormiva: stremata da mesi di monotona disciplina, provava nostalgia per casa, per la musica, per i genitori. L’immagine di Arsenij ormai sbiadita, ma il dolore che aveva provocato ancora vivo. Nel cuore cresceva una sola paura: tornare.

Quando Mark arrivò, toccò le antiche mura e fu investito da un Silenzio totale, quasi tangibile. In quell’istante sentì il peso degli anni dissolversi: provò una pace sconosciuta, come un abbraccio di amore infinito. Pianse, senza vergogna.

Entrò da Alice. Lei lo guardò sorpresa. Lui cominciò a parlare, a confessare tutto: i fallimenti, l’egoismo, la perdita, l’abisso. Parlava con sincerità brutale. E le disse ciò che nessuno aveva avuto il coraggio di dirle: che i suoi genitori stavano morendo di dolore, che l’aspettavano, che l’amavano più della vita stessa.

Le parole spezzarono la diga. Alice pianse. Ammetteva di non aver pensato, di non aver voluto ferirli. E alla fine disse:
— Torniamo. Subito.

La portarono via in macchina. Artemo e Vera avrebbero riavuto la loro figlia.

Mark, però, non salì. Rimase davanti al portone del monastero. Sorrise, sobrio e sereno, guardando l’auto scomparire. Poi si voltò verso le mura antiche e i cupoli azzurri che si stagliavano contro il cielo limpido. Aveva trovato ciò che cercava per tutta la vita. Aveva trovato il Silenzio.

E decise di restare. Per guarire.