«Vai, vai pure, vecchio, qui non c’è posto per te con le tue monetine». Ma dopo un paio di minuti, lo guardava già con occhi del tutto diversi.

ПОЛИТИКА

Il mercato «Severnij» ogni mattina viveva di vita pulsante, come se al suo interno funzionasse un motore invisibile: le venditrici attiravano i clienti, gli studenti discutevano sul prezzo dei mandarini, i facchini borbottavano caricando sacchi di patate. Ma proprio quel giovedì d’aprile il brusio era diventato irritato, come se l’aria si fosse appesantita di cattiveria.

Alla bancarella dei salumi si avvicinò un anziano magro. Avrà avuto circa ottant’anni: un mantello grigio dal taglio militare, i gomiti rattoppati, scarpe con lacci non corrispondenti. In una mano teneva un bastone; con l’altra si stringeva al petto, come se una ferita lì dentro non fosse ancora del tutto rimarginata.

Il venditore — un ragazzo alto, dal viso roseo, di nome Timur — si voltò brandendo un coltello:

— Vattene, vecchio, qui non c’è posto per te!

L’anziano rimase immobile, come sbattuto contro un muro invisibile.

— Vorrei un pezzetto di lardo, figliolo… Pagherò, — disse con voce tremante.

— Pagare? E dove hai speso la pensione? — scoppiò a ridere Timur così forte da far sobbalzare le bancarelle vicine. — Sono stanco di mantenere scrocconi!

I clienti si voltarono: qualcuno sorrise compiaciuto, qualcun altro abbassò lo sguardo.

Il vecchio insisté:

— Non chiedo elemosina. Voglio comprare.

Tirò fuori un portafoglio di carta ormai malridotto. Ne caddero due monete da un rublo e una decorazione in alluminio «Per il coraggio».

Timur sbuffò:

— Le monete non mi servono. Hai visto i prezzi? Sparisci, non intralciare il lavoro.

L’anziano guardò intorno a sé. Non trovò uno sguardo di pietà. Persino le signore con le sporte di verdura distoglievano lo sguardo. Allora si fece un lungo respiro, salì lentamente su una cassa di legno abbandonata dai facchini, divaricò le gambe e si mise dritto come a salutare da parata.

— Cittadini… — la voce era fievole, ma chiara — permettetemi di cantare una canzone. Non per elemosina, ma per ricordo.

Timur alzò la mano, spazientito:

— Di nuovo un concerto! Chiamo la guardia!

Ma in quel momento Pet’ka, l’addetto alla sicurezza, si stava preparando il tè nella sua guardiola. La gente si arrestò — alcuni per curiosità, altri per disagio. L’anziano prese fiato, ignorò il rauco tremito e cominciò a cantare la canzone di guerra:

«Strade… solo polvere e nebbia…»

Per primo ascoltò un ragazzino con lo zaino. Poi la venditrice di semi smise di schioccare le labbra. I facchini alzarono il capo. La voce era sottile, ma precisa, come una corda tesa: ogni parola vibrava nel silenzio sospeso.

Timur rimase fermo col coltello puntato sui salami. La sua cliente ritrasse la borsa — stava semplicemente ad ascoltare. I versi proseguirono:

«E la steppa è coperta d’erba incolta…»

E a un tratto divenne chiaro a tutti: quell’uomo stava tessendo un filo che lo riuniva al lontano 1945.

Dopo qualche minuto il mercato si fece silenzioso. Nei banchi non si udirono più colpi di coltello, sulle bilance non scattò più alcun rumore: persino il brusio attorno si fermò. Solo il fischio del bollitore nella guardiola ruppe la quiete — poi Pet’ka lo spense senza sapere perché.

L’anziano cantò l’ultima strofa, fece un passo verso il basso e quasi vacillò. Lo sostenne il ragazzino.

— Nonno, siediti, — gli sussurrò dolcemente.

Una donna col piumino di tendenza avanzò silenziosa e porse una bottiglia d’acqua:

— Prego, bevi.

L’anziano bevve qualche sorso e annuì in segno di gratitudine. Voleva scendere, ma inaspettatamente Timur avanzò, afferrò un pezzo di lardo grosso come un mattone, lo avvolse in carta e lo porse a Fëdor Savel’evič:

— Prenda. Non ci avevo pensato prima. Mi scusi.

— No, devo pagare, — insisté l’anziano.

Timur aggrottò la fronte, frugò in tasca, tirò fuori dei soldi e li sistemò accanto al vecchio. Poi aggiunse: un pacco di pasta, una forma di formaggio, un sacchetto di grano saraceno.

— È per lei. Da parte di tutti noi.

Chi era intorno parve destarsi da un sonno. Uno dopo l’altro cominciarono a offrire cibo: chi una scatola di dolci, chi un barattolo di fagioli, chi una dozzina di uova. Il facchino Sen’ka gettò in una sporta un paio d’arance; la venditrice di erbette un mazzo di aneto. Nella borsa piovvero confezioni, pacchi, barattoli, come se il mercato avesse deciso di colmare le riserve del solitario veterano.

Il ragazzino, in prima fila, chiese:

— Nonno, hai molta strada da fare? Possiamo aiutarti?

L’anziano lo guardò con gli occhi umidi per il vento gelido:

— Arriverò. Ma non per me, per il mio amico veterano Pavlo Artëmovič. Ha problemi ai polmoni. Stavamo insieme, ma quasi tutti se ne sono andati: siamo rimasti solo noi due.

Timur si tolse l’orlo del grembiule:

— Va bene, io e Pet’ka lo portiamo con la «Gazelle». L’auto è libera.

L’anziano tacque a lungo, come incredulo. Poi annuì e, a bassa voce:

— Grazie, gente buona. Io sono Fëdor Savel’evič.

— E io sono Grìša, — sorrise il ragazzino. — Nonno Fëdor, mi insegni questa canzone?

— Te la insegnerò, nipotino. E imparerai anche il ritornello.

La folla si divise, creando un corridoio. Grìša avanzava davanti, con la medaglia come un estintore di memoria. Dietro di lui Timur e la guardia con pesanti borse. La gente li accompagnava con lo sguardo, come a un corteo.

Quando il veicolo partì, il mercato riprese a ronzare. Ma in quel brusio si avvertiva un’altra intonazione — più dolce, più attenta.

— Magari ogni giovedì invitiamo i veterani a cantare? — propose qualcuno.

— Facciamolo, — risposero in coro.

Timur tornò al suo banco, afferrò il coltello, ma la mano gli tremò. Si tolse il guanto, chiuse gli occhi e con un gesto rapido si asciugò una lacrima.

Si avvicinò un cliente con gli occhiali:

— A che prezzo è oggi il cervelat?

Timur sorrise:

— Con lo sconto per chi ha memoria: novantotto.

Il mercato tornò alla sua vita abituale. Ma attraverso il consueto frastuono ora filtrava una nota nuova — sottile, quasi impercettibile, ma essenziale: per cinque minuti tutto si era fermato e la voce di un vecchio li aveva costretti ad ascoltare non i prezzi, ma la propria coscienza.