Il cimitero, per la maggior parte delle persone, è un luogo di addio, di dolore, di fine.
Per Lëna era diventato quasi una casa. Non in senso letterale: un tetto non lo aveva, se non contare il vecchio sepolcro di granito, dove si rifugiava soltanto nei geli più feroci. Ma con lo spirito, con l’anima, lì si sentiva a casa.
Lì regnava il silenzio, interrotto soltanto dal canto degli uccelli e dai rari singhiozzi di chi veniva a rendere omaggio ai defunti. Nessuno lo guardava dall’alto in basso, nessuno lo cacciava, nessuno indicava la sua giacca consunta e le scarpe sfondate. Ai morti tutto era indifferente — ed in questa indifferenza c’era una strana, rassicurante giustizia.
Lëna si svegliò per il freddo: sulla coperta di cartone si era posata la rugiada del mattino. L’aria era trasparente, la nebbia avvolgeva le tombe, quasi volesse proteggerle dal mondo. Si sedette, si stropicciò gli occhi e, come ogni giorno, abbracciò con lo sguardo il suo “regno”: file di croci, lapidi, erba alta e muschio.
Il suo mattino non iniziava col caffè, ma col giro di controllo: doveva verificare che le corone non fossero state spostate, i fiori non rovesciati, che nessuno avesse lasciato impronte notturne. Il suo unico amico e insieme capo era Sanyc — custode dai capelli grigi, voce ruvida, ma occhi buoni e attenti.
— Sei ancora piantato lì? — grugnì dalla guardiola la voce roca. — Vieni a bere almeno un tè caldo, o ti ammali.
— Arrivo, Sanyc, — rispose Lëna senza smettere di sistemare.
Si avviò verso una tomba modesta in fondo al cimitero. Una semplice lastra grigia, incisa: “Antonina Sergeevna Volkova. 1965–2010”. Niente foto, nessuna frase consolatoria. Ma per Lëna quello era il luogo più sacro sulla terra. Lì riposava sua madre.
Quasi non la ricordava — né il volto, né la voce. I suoi ricordi iniziavano dall’orfanotrofio, dai muri spogli e dai volti estranei. Lei se n’era andata troppo presto. Ma presso la sua tomba sentiva calore, come se qualcuno invisibile fosse ancora accanto a lui. Come se lei si prendesse cura di lui. Mamma. Antonina.
Con mani attente strappò le erbacce, pulì la pietra con uno straccio umido, aggiustò il piccolo mazzo di fiori di campo che aveva portato il giorno prima. E parlò. Le raccontò del vento, del gracchiare dei corvi, del piatto di zuppa che Sanyc gli aveva offerto. Si lamentò, ringraziò, chiese protezione. Credeva che lei lo ascoltasse. Quella fede era la sua unica forza. Per il mondo era un vagabondo, uno scarto. Ma lì, davanti a quella lapide, era qualcuno. Era figlio.
La giornata scorreva: aiutò Sanyc a riverniciare una vecchia recinzione, ricevette in cambio una scodella di minestra calda e tornò subito dalla sua “mamma”. Si accovacciò davanti alla tomba e continuò a raccontare. Quando all’improvviso il silenzio fu spezzato dal rumore di gomme sul ghiaino.
Un’auto nera e lucente si fermò al cancello. Ne scese una donna. Sembrava uscita da una rivista patinata: cappotto di cashmere, pettinatura impeccabile, volto segnato da un dolore dignitoso più che da vera sofferenza. Stringeva un enorme mazzo di gigli bianchi.
Lëna si ritrasse istintivamente, cercando di sparire. Ma la donna camminava dritta verso di lui. Dritta verso la tomba di sua madre.
Il cuore gli si strinse. Lei si inginocchiò, le spalle scosse da singhiozzi muti, profondi, incurante della terra che macchiava i suoi abiti. Depose i gigli accanto al suo modesto mazzetto.
— Mi scusi… — mormorò Lëna, incapace di tacere. — Lei… lei è qui per lei?
La donna trasalì, lo guardò con occhi lucidi e attoniti.
— Sì, — sussurrò.
— Anche lei conosceva mia mamma? — chiese lui, con toccante innocenza.
Il volto di lei si irrigidì, come colpito da un fulmine. Lesse sulla lapide il nome: Antonina Sergeevna Volkova. Il respiro le si spezzò, le labbra tremarono, gli occhi si capovolsero. Svenne.
— Sanyc! Aiuto! — gridò Lëna prendendola al volo.
Il custode accorse, insieme la portarono nella guardiola impregnata di tè e tabacco. Con acqua e ammoniaca riuscirono a rianimarla. Quando riaprì gli occhi, lo fissò a lungo, cercando qualcosa nel suo volto. Poi sussurrò parole che cambiarono per sempre la sua vita:
— Quanto… quanto a lungo ti ho cercato…
E cominciò a raccontare.
La sua storia li trascinò indietro di più di trent’anni: una giovane ragazza, un amore proibito col figlio del padrone, una gravidanza rifiutata, il ricatto di una suocera crudele, un bambino dichiarato morto ma in realtà sottratto… da Antonina, la sola amica che aveva avuto, la stessa che anni dopo Lëna aveva chiamato “mamma”.
Ogni parola era una lama: la verità svelava che la donna sepolta lì non era madre, ma rapitrice. E la donna davanti a lui — ricca, elegante, disperata — era la sua vera madre, Natalia.
Non era finita: il padre, Igor, l’uomo che non aveva avuto il coraggio di difenderla, stava morendo in un hospice, cercandolo negli ultimi giorni di vita.
Lëna era devastato: tutta la sua esistenza di fame, gelo e solitudine poggiava su una menzogna. Eppure, davanti alla mano tesa di Natalia, non seppe rifiutare. Tremante, vi posò la sua mano sporca.
Il viaggio verso l’hospice fu lungo e silenzioso, rotto solo da lacrime e confessioni sussurrate. Per la prima volta, madre e figlio si ritrovavano davvero.
In quella stanza bianca, tra fili e monitor, un uomo esangue aprì gli occhi. Igor. Lo sguardo si posò su di lui, lo riconobbe, e una pace improvvisa gli addolcì il volto. Lëna gli prese la mano. Nessuna parola. Solo il gesto di un figlio che perdona e di un padre che muore sereno.
Un ultimo respiro, un sorriso lieve. Il monitor si spense. Igor se n’era andato, stringendo finalmente la mano di suo figlio.
Natalia abbracciò Lëna. E in quel silenzio, tra dolore e verità, nacque qualcosa di nuovo: l’inizio di una vita in cui non sarebbero più stati soli.