Lena era seduta in cucina, mescolando per inerzia il caffellatte ormai freddo con il cucchiaino, e pensava: quanti anni sono passati, eppure nulla è cambiato.
Tutti quei parenti di Sasha erano stati sempre i protagonisti della loro vita, e ora si intromettevano non più di nascosto, ma apertamente.
Tutto era cominciato tempo fa, la prima volta quando a Lena era venuto il momento di andare in clinica per il parto.
— Lena, ti ho trovato un buon ginecologo — dichiarò con aria energica Natalia, la sorella di suo marito, irrompendo in casa senza neanche suonare. — Sistemiamo tutto! Ho già dato l’acconto!
— Come «trovato»? — balbettò Lena, abbracciandosi la pancia. — Io avevo già preso accordi con il medico, all’ospedale del quartiere.
— Ma cosa dici! — sbottò Natalia, alzando le mani. — Lì le condizioni sono terribili! Io ti ho organizzato tutto in una clinica privata! Reparto singolo, partorirai come una regina! L’unica cosa che devi fare è non preoccuparti!
— Però io… — Lena sorrise nervosamente. — Non ti ho chiesto nulla, Natalia.
— Ma su, — fece spallucce Natalia. — Siamo famiglia. Tutto deve essere perfetto!
Quella volta Lena tacque. Perché era stanca, perché era il primo parto, perché aveva paura e discutere le pareva inutile.
Poi ci fu la storia dell’appartamento.
Appena lei e Sasha avevano iniziato a mettere da parte per la loro casa, la suocera cominciò a far presente:
— Dovete comprare vicino a me — ripeteva a ogni incontro. — Tu, Lena, starai in maternità, e io ti aiuto con il bambino.
— Noi vorremmo invece più vicino al centro — provava a obiettare Sasha, con cautela.
— Il centro è caos, polvere, traffico — tagliava corto la suocera. — Qui invece c’è una buona scuola e l’asilo è dall’altra parte della strada.
Lena cercava di fiatare:
— Ci metteremmo troppo per andare al lavoro…
— Nulla, giovani, sopportate un po’ — la zittiva la suocera come se le parlasse a dei bambini.
Finì che Sasha, logorato da quelle pressioni, comprò davvero l’appartamento vicino alla madre. E iniziarono le visite a sorpresa, i consigli sull’educazione e in cucina comparvero, senza chiedere permesso, le «spezie giuste» perché, a detta loro, «a casa vostra non si cucinava bene».
Il terzo colpo fu la scelta del nome della figlia.
Lena aveva sempre sognato un nome breve e sonoro: per esempio Vera o Lada. Una sera lei e Sasha avevano pure stilato una lista, ridendo e provando vari nomi.
Ma poi, a un raduno di famiglia davanti alla torta, la sorella di Sasha annunciò:
— Ecco deciso! La chiameremo Galina, in onore della nonna.
Lena si strozzò con l’insalata.
— Un momento, — provò a intervenire. — Sasha e io non abbiamo ancora scelto.
— Ma di che si tratta? — intervenne la suocera. — Tradizioni vanno rispettate. Galina è un bel nome!
Sasha restò in silenzio, sguainando la forchetta nel piatto.
— Io avrei voluto un altro nome… — mormorò Lena.
— Sei giovane, ti farai passare — sorrise la suocera. — Poi ringrazierai.
Quando uscirono dalla clinica, sul cartello di benvenuto preparato dai parenti c’era scritto: «Benvenuta, Galina!»
Lena guardava quel cartoncino rosa con le lettere di cotone e si sentiva un’ospite a una festa altrui.
Scosse via i ricordi, sospirò pesantemente e prese il telefono. Sasha aveva scritto che quella sera sarebbe tornato tardi per un seminario. Guardò l’orologio: i bambini erano a scuola, c’era ancora un paio d’ore di silenzio.
Appena afferrò il libro, il telefono vibrò.
Sul display comparve «Natalia».
Lena portò il telefono all’orecchio.
— Ciao, Lena! — cantilenò gioiosa Natalia. — Come stai?
— Bene — rispose Lena con cautela. — È successo qualcosa?
— No no, tutto a posto! Ho pensato… Presto festeggiamo i quarant’anni di Sasha, giusto?
— Tra un mese — annuì Lena.
— Ecco! Abbiamo deciso di organizzare una festa grandiosa! Tutto a nostre spese.
Lena aggrottò le sopracciglia.
— Natalia, forse dovremmo prima consultarci con Sasha? Sai che a lui piacciono le cose semplici.
— Su, non fare la difficile! — fece Natalia. — Chi ci ascolta in famiglia? Il locale è già scelto, e l’animatore è fantastico. Devi solo confermare…
Lena, sorridendo, sfogliava foto sul portatile: lei e Sasha giovani, pieni di vigore e con gli occhi che brillavano. All’epoca sembrava che insieme potessero affrontare qualsiasi cosa, finché i parenti non si mettevano in mezzo. Quasi.
Si erano conosciuti così, per caso: Lena e un’amica erano rimaste dopo le lezioni al bar dell’università, chiacchierando, quando da un tavolo vicino si sentirono delle voci maschili:
— Scommetto che in due minuti capisco come si chiama — disse un uomo.
— Dubito che ci riuscirai — rise l’altro.
Subito dietro, apparve lui: alto, con un sorriso aperto e occhi verdi maliziosi.
— Ciao, sono Sasha — disse. — E tu, per caso, sei Alina?
Lena scoppiò a ridere, scosse la testa:
— No.
— Allora sei Marina — fece lui, finto offeso. — Ci stavo provando.
— Quasi — lo assecondò Lena, sorseggiando il caffè. — Sono Lena.
Lui si sedette senza invito, ma sembrava così naturale che l’amica di Lena scoppiò in una risata.
— Abbiamo una scommessa in corso — disse Sasha. — Ho già vinto?
— Eccome — rispose Lena.
Così iniziò la loro storia, leggera e spontanea. Andavano al cinema per commedie, si sfidavano a chi resisteva più a lungo senza cellulare, ridevano insieme senza motivo.
Lena spesso stuzzicava Sasha per la sua capacità di addormentarsi ovunque:
— Riesci davvero a sprofondare nel sonno in piedi nella metro? — rideva. — È un talento!
— Tradizione di famiglia — rispondeva serio lui.
— Certo — lo provocava Lena. — L’illustre eredità di russare sugli autobus.
E lui contrattaccava:
— E tu sfreghi il gelato con una tale rapidità che ne rimane appena traccia sulle dita — sorrideva orgoglioso. — Hai mai visto una velocità simile?
In quei momenti sembrava che nulla potesse fermarli: parenti polemici, problemi quotidiani o altro. Erano solo loro due contro il mondo, e il mondo perdeva.
Per i primi sei mesi Sasha raramente parlava della sua famiglia. A volte accennava alla sorella Natalia e alla madre con una battuta:
— Natalia è un comandante in capo. Se ordina di scavare, scavi anche con un libro in mano e il suolo di cemento.
— E tua madre? — chiedeva Lena con delicatezza.
— Lei ama l’ordine e vuole tutti sotto il suo controllo — rideva lui.
— Sei il più giovane in famiglia? — azzardò Lena.
— Esatto. E il più promettente. La loro star, direi.
Lena rise. Tutto sembrava così semplice allora.
Quando arrivò il momento di incontrare i genitori, Lena era agitata: scelse l’abito, provò le parole giuste.
Sasha le disse spensierato:
— Starà andando tutto bene. Non ti preoccupare. Basta non litigare su conserve e laminato.
— Cosa? — restò perplessa.
— Mia madre ha le sue opinioni sul cibo e sui pavimenti — spiegò lui ridendo. — Per il resto, vedrai, andrà tutto liscio.
Alla prima cena infatti tutto filò liscio: la madre di Sasha parlava di conserve fatte in casa e prezzi del grano, Natalia discuteva delle ultime tendenze d’arredo, e Lena annuiva e sorrideva. In quel momento pensava: l’importante è lui, tutto il resto verrà da sé.
Dopo cena si sedettero sulla panchina sotto casa.
— Sei stata fantastica — le disse Sasha, baciandola sulla tempia. — Molto meglio di me al primo colloquio con i miei.
— I tuoi parenti fanno paura? — scherzò Lena.
— No, solo che sono come trattori. Vanno dove vogliono. Ma tu sei la mia persona — la rassicurò lui. — Sei intelligente, buona e, insomma, fantastica.
Disse quelle parole con tale naturalezza che Lena ci credette: insieme potevano superare qualsiasi ostacolo, trattori compresi.
Poi, nella loro prima, piccola casa in affitto, la felicità era palpabile: l’odore del caffè al mattino, l’aroma dei profumi, i croissant freschi che Sasha portava al sabato. Organizzavano feste per due, ordinavano pizza e ballavano in cucina.
Una volta, mentre la teneva in vita, Sasha le promise:
— Ti comprerò un appartamento tutto nostro, senza l’intervento di mamma. Te lo giuro.
— Basta che non discutiamo su laminati — rise Lena.
— E senza conserve in dispensa! — aggiunse lui.
Allora Lena non poteva immaginare che, pochi anni dopo, quelle battute scherzose si sarebbero trasformate in battaglie per lo spazio personale.
Adesso, però, un’altra chiamata di Natalia interruppe i ricordi.
— Ciao Lena! — esclamò Natalia col solito tono smielato. — Sei a casa?
— Sì — rispose Lena, trattenendo l’ansia. — Che succede?
— Tutto pronto per i quarant’anni di Sasha! — esclamò Natalia. — Abbiamo già tutto organizzato!
Lena si sedette di scatto.
— Natalia, non avevamo concordato niente — protestò.
— Come «non abbiamo concordato»? — fece lei. — Siamo famiglia! Abbiamo già prenotato la sala a “Radura di Smeraldo”: vista sul fiume, animatore top, torta a tre piani…
Lena la interruppe:
— Natalia, noi invece avevamo pensato a una cosa diversa.
— Uff, i maschi non capiscono niente di feste! — ribatté Natalia. — Pensiamo a tutto noi. Tu manda l’acconto domani.
— Quale acconto? — chiese Lena, stringendo il telefono con forza.
— Cinquantamila, come stabilito — disse Natalia. — E poi diecimila in più per i fiori freschi e altro.
— Cinquantamila? Solo come anticipo? — ripeté Lena.
— Ma certo! — disse Natalia scandalizzata. — È il compleanno di Sasha! Una volta sola si compiono quarant’anni!
Lena inspirò a fondo. Dentro di sé già montavano decine di risposte taglienti, ma sapeva che litigare era inutile: avevano già deciso tutto.
— Va bene — disse, con voce ferma. — Domani ci sentiamo.
— Bravissima! — concluse Natalia, chiudendo la chiamata.
Quella sera Lena raccontò tutto a Sasha, che stava ai fornelli a mescolare la pasta.
— Un ricevimento alla “Radura di Smeraldo”, quindi — disse lui con un sorriso stanco. — Io avrei preferito una vacanza al mare.
— Dille tu questo — sospirò Lena, appoggiandosi allo schienale della sedia.
— Non serve — rispose Sasha. — Sono già troppo coinvolti. Non c’è verso di fermarli.
— E ora cosa facciamo? — chiese Lena.
Lui la guardò, le sorrise con quel sorriso vero che ancora la faceva tremare il cuore.
— Facciamo a modo nostro.
Il giorno dopo Lena prenotò un viaggio per lo Sri Lanka: un delizioso hotel fronte mare, palme, caldo e nessun parente all’orizzonte. Quando arrivò la conferma, chiuse il portatile e si concesse un sospiro di sollievo.
Lasciasse che i parenti festeggiassero alla “Radura di Smeraldo”: non la riguardava più.
Il mese prima del compleanno di Sasha, le chat di famiglia si accesero come lucine di Natale: foto di decorazioni, menu, costumi per la photobooth. Lena osservava quel teatro dell’assurdo in silenzio.
Ogni sera lei e Sasha pianificavano in segreto: biglietti aerei, passaporti controllati, costumi pronti. I bambini non sapevano nulla, onde evitare spoiler a nonne e zie.
Tre settimane dopo, l’aereo si staccò dalla pista. Lena guardò fuori dal finestrino: con la terra sotto di sé si staccava anche un peso — fastidi, offese e continue richieste di compiacere chi non sarebbe mai sazio.
Davanti a lei c’erano il sole, il mare e le palme. E, soprattutto, loro quattro: liberi da ospiti indesiderati.
I parenti potevano continuare a celebrare la loro «vittoria» nella sala che avevano scelto. Loro non c’erano.