Fëdor non avrebbe mai dimenticato quel giorno. Si era impresso nella sua memoria per sempre – come una tragica pagina nera in una vita altrimenti fatta di calma e serenità.
Il tempo era stato disgustoso fin dal mattino. Un vento autunnale gelido gli tagliava il viso come lame, la pioggerellina gli scivolava sulla pelle penetrando fino alle ossa. In un’atmosfera così grigia veniva voglia di raggomitolarsi sotto una coperta, mettere su il tè e non uscire mai più di casa. Ma Fëdor era un uomo di parola e di dovere. Non era abituato a cercare scuse per oziare o a rimandare ciò che andava fatto. Il suo lavoro di guardiaboschi non era semplicemente un dovere: era una vocazione, uno stile di vita, un legame con la natura che amava più di ogni altra cosa. E quel giorno era iniziato come tanti altri, un giorno di lavoro come sempre.
Uragan, il suo fedele aiutante a quattro zampe, avvertiva anch’egli che qualcosa di insolito stava per accadere. Il cane, annusando l’aria e tirando sul guinzaglio, mostrava nervosismo, come se intuendo un pericolo imminente. Quando stavano per terminare il giro di perlustrazione, Uragan abbaiò improvvisamente e si gettò nel folto del bosco. Fëdor lo seguì, sapendo che il cane non si sarebbe agitato senza motivo: se c’era qualcosa che non andava, voleva dire che laggiù, in mezzo agli alberi, qualcuno aveva bisogno di aiuto.
Arrivato su una radura, si fermò di colpo. Sembrava che il tempo si fosse arrestato. Ciò che vide lo fece vacillare. Su un terreno coperto di foglie bagnate e ciuffi di muschio, giaceva una ragazza. Vestiva un abito da sposa candido, ormai sporco di fango e macchiato di sangue. I capelli le erano arruffati, il volto pallido, il corpo immobile. Tutto intorno pareva irreale, come un incubo dal quale non ci si può svegliare.
A Fëdor servì qualche secondo per riprendersi. Si avvicinò con cautela e le sfiorò la spalla: respirava. Dio sia lodato, era viva. Non si era congelata, non aveva perso troppo sangue… ma chi poteva averle fatto una simile violenza? E perché proprio lì, in quel bosco?
— Ragazza, mi senti? — mormorò piano, cercando di non turbarla troppo.
Ma non ottenne alcuna risposta, se non un profondo silenzio.
Senza perdere tempo, Fëdor si tolse la giacca e la avvolse delicatamente intorno alla ragazza, sollevandola tra le braccia. Nonostante il freddo e l’umidità, si precipitò verso casa: restare nel bosco era troppo pericoloso, non si sapeva cosa potesse nascondersi tra gli alberi. Camminava a passo svelto, ma con attenzione, per non farle male. Uragan correva al suo fianco, teso e vigile, come comprendendo la gravità della situazione.
La casa li accolse con silenzio e calore. Fëdor depose la ragazza sul divano e solo allora chiamò la moglie:
— Nastja! Vieni in fretta, presto!
Nastja balzò fuori dalla cucina, rimase di stucco alla vista della scena e si precipitò in aiuto. Insieme si misero a prestarle le prime cure: Nastja cercò di sfilare l’abito da sposa, in parte dovendo tagliarlo per toglierlo, poi le deterse viso e mani, eliminando sangue e fango. Il corpo era ricoperto di lividi e graffi. Ogni segno di violenza suscitava in loro rabbia e dolore.
— Mio Dio, che essere umano può arrivare a tanto?! — sussurrò Nastja, trattenendo a stento le lacrime. — Come si può trattare una donna così, e proprio nel giorno del suo matrimonio…
Subito chiamarono un’infermiera e il vigile di zona. L’infermiera, un’anziana signora di nome Agrippina Timofeevna, visitò la ragazza e confermò che fortunatamente non c’erano fratture, ma che era necessario portarla in ospedale. «Ci sono molte ecchimosi, potrebbero esserci lesioni interne. Meglio prevenire», disse, somministrandole un analgesico e un sedativo. Poi se ne andò, lasciando la coppia a fronteggiare pensieri angosciosi.
La giovane, che si presentò come Ol’ga, rimase in uno stato di semi-incoscienza per tutto il giorno, tra incubi e lamenti. Solo verso sera riuscì a raccontare la sua vicenda, un racconto da far gelare il sangue nelle vene.
Tutto era cominciato il giorno prima, il giorno delle nozze. Dopo mesi d’amore con Vadim, avevano finalmente deciso di sancire ufficialmente la loro unione. Il matrimonio si era svolto in modo solenne, circondati dagli affetti più cari. Gli invitati erano entusiasti, gli sposi raggiante di felicità. Ol’ga si sentiva la donna più bella e amata del mondo.
Ma a festa nel pieno svolgimento, un cameriere l’aveva avvicinata per dirle che qualcuno la stava aspettando all’ingresso, desideroso di congratularsi di persona, con fiori e un regalo. «Sarà Denis, un collega del mio vecchio lavoro», aveva pensato Ol’ga. «Un ragazzo timido, sempre innamorato di me, ma ha sempre taciuto. Forse non ha resistito a non venire…»
Era uscita sperando di salutare quel vecchio amico e invitarlo alla cerimonia, ma non immaginava l’orrore che l’aspettava. Denis le porse un mazzo di fiori e disse di avere un altro regalo in macchina. Infastidita, Ol’ga esitò, ma lui insistette con forza fino a spingerla all’esterno, dove la attendeva un’auto con un complice a bordo.
Lei non capì subito cosa stesse accadendo: la macchina partì, e solo allora realizzò che era vittima di un rapimento. Cercò di urlare aiuto, ma il guidatore non si voltò; Denis, seduto accanto a lei, parlava delle sue “verità”: affermava che erano fatti l’uno per l’altra, che lei aveva scelto la persona sbagliata e che lui era pronto a tutto per averla.
— Se mi rifiuterai, ti ucciderò — le aveva sussurrato con voce stridula.
La vettura si inoltrò nel fitto del bosco. Lì Denis la costrinse a scendere e pretese che lei riconoscesse il suo amore. Ol’ga si ribellò, graffiò, tentò di fuggire. Lui la colpì più volte finché lei perse i sensi. Il complice, vedendo che la situazione stava degenerando, provò a intervenire, ma poi si arrese e ripartì, lasciando la vittima in balìa del carnefice.
Per un prodigio, Ol’ga riprese i sensi. Vicino a lei c’era un grosso ramo. Con le ultime forze lo afferrò e colpì Denis, che cadde a terra. A quel punto fuggì attraverso rovi, paludi e ostacoli che neppure gli animali avrebbero osato affrontare. Poi la stanchezza ebbe il sopravvento e lei cadde priva di sensi sul terreno fradicio. Dopo, solo il buio.
Quando Ol’ga finì di raccontare, in casa calò un silenzio di tomba. Nastja scoppiò in lacrime e Fëdor, stringendo i pugni, non trovava parole. Come si poteva essere tanto crudeli? Come sentirsi meritevoli di amore quando si era capaci di torturare e quasi uccidere una donna?
— Adesso sei al sicuro — le disse con dolcezza Fëdor. — Ti proteggeremo. Nessuno ti farà più del male.
Ma il destino riservava un’ultima sorpresa: in quel momento un colpo violento risuonò contro la finestra. Tutti trasalirono. Ol’ga si ritrasse spaventata, come se avesse rivisto il suo carnefice.
Fëdor impugnò il fucile e la torcia, uscì sul portico.
— Chi è là? Vieni fuori, non nasconderti! — urlò con voce ferma.
Dall’oscurità emerse la figura di un uomo: era Denis. I vestiti strappati, il volto coperto di fango, gli occhi ardenti di febbrile pazzia.
— Ridatemi Ol’ga! So che è qui!— gridava. — È il mio destino, il mio vero amore! L’ho cercata per due anni, l’ho amata… e non permetterò a nessuno di portarmela via!
La sua voce tremava, lacrime solcavano le guance, i pugni si serravano convulsamente. Era insieme spaventoso e patetico.
— Deve stare con me! Non me ne andrò senza di lei!
Fëdor non gli permise di avvicinarsi. Pochi istanti dopo arrivò l’auto del vigile, chiamato da Nastja. I poliziotti fermarono Denis e lo portarono via. Nel bosco si udirono per molto tempo i suoi urla e i suoi lamenti.
Più tardi giunse anche Vadim. Con delicatezza prese Ol’ga tra le braccia, la sistemò in macchina e partì. Prima di andarsene ringraziò sinceramente Fëdor e Nastja per averle salvato la vita: senza di loro, forse, la storia avrebbe avuto un epilogo tragico.
Quel giorno lasciò un segno indelebile nel cuore di tutti i protagonisti. Per Ol’ga fu la lezione che non ogni amore è nobile. Per Fëdor e Nastja un promemoria che il bene a volte è il confine tra la vita e la morte. E per gli abitanti del villaggio la prova che, anche nei luoghi più pacifici, possono nascondersi le storie più terribili.