Arina è sempre stata silenziosa. Ma non perché avesse paura di parlare o si sentisse sola. Il suo silenzio era consapevole, come il respiro, come la pausa prima di una parola che valga davvero la pena di essere pronunciata. Nella sua famiglia si apprezzava non la quantità di parole, ma il loro significato. Ogni parola doveva avere peso. E se qualcosa poteva essere comunicato col silenzio, era meglio tacere.
Suo padre era un militare, un ex ufficiale, che conosceva il vero valore della resistenza, della pazienza e della precisione. Sua madre era un’allenatrice di judo, maestra di sport, che insegnava che la vera forza non sta nel colpire per primo, ma nel saper trattenersi fino all’ultimo. In casa loro c’era spesso un solo principio: «Parla solo se le tue parole valgono più del silenzio». Per Arina non era solo un motto, ma uno stile di vita.
Fin dall’infanzia ascoltava le storie degli adulti. Suo padre raccontava di come, durante gli addestramenti, si dovesse rimanere immobili per ore, perfino trattenendo il respiro per non farsi scoprire. Sua madre spiegava che in un combattimento vince chi resiste fino alla fine, non chi colpisce per primo. Questi racconti facevano parte del suo insegnamento. Le avevano trasmesso la consapevolezza che la forza non è crudeltà, ma autocontrollo, chiarezza di pensiero e prontezza ad agire al momento giusto.
Già a quattro anni Arina sapeva come cadere correttamente per non farsi male alle articolazioni. A cinque imparò a uscire da una semplice presa. A otto era capace di difendersi anche se attaccata in due. Gli allenamenti non erano duri, ma precisi e ragionati, come una partita a scacchi. Niente movimenti inutili. Solo l’essenziale. Come il respiro. Come un passo. Come una decisione.
A scuola era una ragazza qualunque. Non una leader, non una bellezza da copertina, non la star della classe. Solo Arina. Riservata, calma, quasi invisibile. Per un po’ nessuno la toccò. Ma tutto cambiò in sesta. Fu allora che un ragazzo più grande, convinto di potersi prendere ogni diritto, le afferrò il braccio nel corridoio e la schiacciò contro il muro dicendo:
— Ehi, bella, che ne dici di fare un giro?
Arina non gridò. Non pianse. Non fuggì. Fece semplicemente ciò per cui era stata preparata. Con chiarezza, rapidità, senza movimenti superflui. Si liberò, colpì — e il ragazzo finì a terra. Fece un gran rumore. Vennero chiamati i genitori. Il preside urlò che Arina era un pericolo per gli altri. Che non si poteva fare così. Che doveva controllarsi.
Suo padre rispose tranquillo:
— Lei si difendeva. Se l’aveste protetta, non sarebbe successo.
Dopo quell’episodio Arina dovette cambiare scuola. Trasferirsi. Ricominciare da capo. Nel nuovo istituto si promise di diventare ancora più silenziosa, ancor meno visibile. Voleva solo studiare, respirare liberamente, non diventare un’eroina, non attirare attenzioni, non essere oggetto di interesse.
Eppure in quella scuola divenne presto il bersaglio di Zjoma.
Lui era temuto e ascoltato da tutti. Sicuro di sé, chiassoso, sempre circondato dai suoi «sì-uomini». La sua regola preferita era: «Se non ridi alle mie battute, sei un estraneo». E Arina non rideva mai. Questo lo irritava.
— Ma tu chi saresti? — le chiese il primo giorno. — La nuova, che cammina come se avesse proibito a tutti di respirare?
Lei non rispose.
— Ehi, sei sorda?
Silenzio.
Lui si convinse di aver vinto. I suoi amici si unirono alla beffa: soprannomi, sfottò, gomme da masticare infilate nei capelli, scherzi per tutta la classe. Gli insegnanti facevano finta di non vedere. Qualcuno persino sorrideva.
Arina continuava a tacere.
A volte, la sera, sua madre la guardava con attenzione e chiedeva:
— È tutto a posto?
Arina annuiva. Si era promessa di farcela da sola, senza lamenti, senza lacrime, come le avevano insegnato.
Ma ogni sera si allenava più a lungo del solito. Non per vendetta, non per desiderio di lotta, ma per essere pronta. Perché la vita non avverte quando sarà necessario difendersi — non solo con il corpo, ma anche con lo spirito.
Dopo qualche settimana la situazione degenerò. Zjoma si annoiava. Era troppo facile. Cominciò a pedinarla vicino agli spogliatoi, sfiorandola «per sbaglio». Una volta la spinse contro il muro, sorridendo:
— Ti piace, vero? Tu taci, quindi sei d’accordo.
Lei semplicemente aggiustò lo zaino e se ne andò.
Il suo silenzio non era paura. Era una scelta.
Quella sera si allenò ancora più a lungo. Suo padre entrò nel dojo, si sedette sulla panca e la osservò.
— Ti ha toccata? — chiese.
— Non è importante — rispose lei —. Per ora me la cavo.
— Va bene — disse lui —. Conosci le regole: non attaccare mai per prima. Ma se succede, non trattenerti.
Passò un’altra settimana. Arina rimase a scuola più a lungo: progetto, biblioteca, aiutava la bidella. Uscì tardi. Erano quasi tutti già andati via. Era grigio, freddo. Le foglie danzavano ai suoi piedi, il vento fischiava nelle orecchie. Si avviava verso la fermata quando sentì passi dietro di sé. Voci. Zjoma e quattro dei suoi amici.
— Allora, nuova, non hai paura del buio? — sorrise lui —. Vogliamo solo parlare, da amici. Nessuno ti farà del male… Ricorda però: il silenzio è consenso.
Arina si fermò. Appoggiò lo zaino a terra. Si tolse la giacca…
Si raccolse i capelli in una treccia.
Si voltò.
— Hai guardato troppi film d’azione? — le disse Lekha, con un sorriso.
Sette secondi.
Il primo colpo — all’addome. Il secondo — alla spalla. Il terzo — al ginocchio. Il quarto lo proiettò a terra con un fauchage. Il quinto non fece in tempo a rialzarsi.
Zjoma rimase immobile, come fulminato. La guardava con gli occhi sbarrati, come se vedesse per la prima volta. Come se si rendesse conto di quanto si fosse sbagliato.
— Tu… tu chi diavolo sei?!
Arina si rimise la giacca, prese lo zaino e, senza cambiare tono, rispose:
— Quella con cui era meglio non mettersi.
Si allontanò, come se non fosse successo nulla.
Il giorno dopo a scuola regnava un silenzio che si tagliava col coltello. Zjoma non si fece vedere. Uno dei suoi amici arrivò con un livido sotto l’occhio. Un altro con il braccio fasciato. Gli insegnanti stavano in silenzio, ma gli sguardi erano cambiati: più seri, più cauti, più rispettosi.
Arina, come sempre, era seduta all’ultimo banco. Scriveva. Guardava avanti. Non cercava nessuno con lo sguardo. E non aveva paura di nulla.
Non la presero più in giro. Solo una volta, mentre la prof passava accanto a lei, le sussurrò:
— Meno male che ci sei tu.
Arina non rispose.
Un mese dopo in classe arrivò una nuova: Svetlana. Magra, voce tremante, occhi pieni di ansia. Durante l’intervallo Zjoma si avvicinò a lei:
— Dai, dimmi come ti chiami, bella?
Svetlana non fece in tempo a rispondere — Arina era già lì, le si parò accanto e la guardò dritto negli occhi. Bastò quello.
— Va bene, va bene, scherzavamo — borbottò lui e si allontanò.
Svetlana guardava Arina con ammirazione.
— Ma tu non l’hai nemmeno colpito — le disse poi.
— No — rispose lei —. A volte basta solo stare al fianco.
Da quel momento molti la presero a esempio. Non per la «figaggine» o il «carattere da combattente», ma per la sua autenticità. Le chiedevano consiglio, sostegno, forza. E lei donava loro la cosa più preziosa: la fiducia in se stesse.
Gli anni passarono. Arina crebbe. Si laureò al college. Si trasferì in un’altra città. Ma poi tornò. Non più da ragazza, ma da donna che sa ciò che vuole.
Aprì una sezione di autodifesa per ragazze. Nel primo mese si iscrissero 76 allieve. Ognuna con la sua storia. Qualcuna taceva, come un tempo Arina. Qualcuna urlava, per il dolore e la paura. Ma tutte cercavano la stessa cosa: un sostegno interiore.
Arina non insegnava solo a parare i colpi. Insegnava a tenere la schiena dritta, a stabilire confini, a tacere quando le parole non cambiano nulla e a parlare quando è giunto il momento.
Quando un giornalista le chiese:
— Perché non hai usato la tua forza per vendetta?
Lei rispose:
— Perché la vera forza è saper colpire e trattenersi. Scegliere non la vendetta, ma la dignità. Perché tu sei al di sopra di tutto questo.