Quando un uomo ricco ed emotivamente distaccato offre un rifugio a una donna senza fissa dimora di nome Sasha, la sua tenacia lo attrae. Il loro legame improbabile comincia a crescere… fino al giorno in cui entra di sorpresa nel suo garage e scopre qualcosa di inquietante. Chi è davvero Sasha e cosa nasconde?
HO FATTO ENTRARE UNA DONNA SENZA FISSA DIMORA A VIVERE NEL MIO GARAGE — E UN GIORNO CI SONO ENTRATO SENZA BUSSARE
Avevo tutto ciò che si potesse comprare con i soldi: un enorme maniero, auto di lusso e più ricchezze di quante ne avrei potuto spendere in tutta la vita. Eppure dentro di me c’era un vuoto che non riuscivo a colmare.
Non ho mai avuto una famiglia, perché alle donne sembrava importare solo dei soldi che avevo ereditato dai miei genitori. A sessantuno anni mi pentivo di non aver fatto scelte diverse.
Bussavo distrattamente le dita sul volante, cercando di scrollarmi di dosso quel senso di oppressione, quando vidi una donna trasandata china su un bidone della spazzatura.
Mi fermai, senza capire perché stessi prestando attenzione. Persone come lei ce n’erano a bizzeffe, no? Ma c’era qualcosa nei suoi movimenti, nelle sue mani ossute che rovistavano con cupa determinazione, che toccò una corda dentro di me.
Sembrava fragile, eppure viveva di puro istinto di sopravvivenza.
Prima che me ne rendessi conto, avevo già accostato. Il motore ronzava mentre abbassavo il finestrino, guardandola dall’interno della mia auto.
Lei alzò gli occhi spaventata. Li spalancò, e per un istante pensai che sarebbe scappata. Ma restò lì, raddrizzandosi e strofinandosi le mani sui jeans sbiaditi.
«Hai bisogno di aiuto?» chiesi, la mia voce mi suonò stranamente estranea. Non ero abituato a parlare con gli sconosciuti, tantomeno a invitare problemi nella mia vita.
«Offri?» rispose con tono tagliente, ma tradiva una stanchezza che diceva: “Ho già sentito tante promesse vuote.”
«Non so». Le parole uscirono prima che potessi riflettere. Scesi dalla macchina. «Ti ho vista e… beh, mi sembrava ingiusto restarti a guardare.»
Incrociò le braccia, tenendo lo sguardo fisso su di me. «La vita stessa è ingiusta». Ridacchiò amaramente. «E quanto agli uomini inutili, beh… non sembri uno di quelli.»
Sogghignai, sapendo che aveva ragione.
«Forse no». Rimanemmo in silenzio. «Hai un posto dove dormire stanotte?»
Esitò, lo sguardo le vagò per un attimo, poi tornò su di me. «No.»
Quella parola sospesa tra noi fu tutto quello di cui avevo bisogno.
«Ascolta, ho un garage. — Beh, è più una dependance —. Potresti starsene lì finché non ti rimetti in piedi.»
Mi aspettavo che mi ridesse in faccia e mi mandasse a quel paese. Invece spalancò gli occhi, e il velo di ostilità cominciò a incrinarsi.
«Non prendo elemosine», disse con voce più bassa, quasi vulnerabile.
«Non è carità», risposi, anche se non ero del tutto convinto nemmeno io. «È solo un posto dove dormire, senza obblighi.»
«Va bene. Solo per stanotte», acconsentì. «Io sono Sasha, a proposito.»
Il viaggio verso il maniero fu silenzioso. Lei sedeva sul sedile del passeggero, con le braccia incrociate a proteggersi e lo sguardo perso oltre il finestrino.
Arrivati, la accompagnai al garage trasformato in alloggio di fortuna. Niente di straordinario, ma sufficiente a vivere dignitosamente.
«Puoi restare qui», dissi, indicando lo spazio arredato con semplicità. «In frigo c’è del cibo.»
«Grazie», mormorò lei.
Nei giorni successivi Sasha abitò nel garage, e ogni tanto consumavamo un pasto insieme. Non so dire esattamente cosa mi affascinasse, ma qualcosa in lei mi attirava.
Forse il modo in cui affrontava la vita nonostante tutto, o la solitudine nei suoi occhi che rifletteva la mia. O forse il fatto che, per la prima volta, non mi sentissi più così solo.
Una sera, a cena, iniziò a confidarsi.
«Facevo la pittrice», disse timidamente. «O almeno ci provavo. Avevo una piccola galleria, qualche mostra… ma è andato tutto in rovina.»
«Che è successo?» domandai, sinceramente incuriosito.
Rise vuotamente. «È successa la vita. Mio marito mi ha lasciata per un’altra, pure incinta, e mi ha buttata fuori. Da allora è stato un disastro.»
«Mi dispiace», sospirai.
Lei scrollò le spalle. «È passato.»
Ma vidi che quella ferita era ancora lì, sepolta sotto la superficie. Lo sapevo bene anch’io.
I giorni scorrevano e attendevo con ansia le nostre conversazioni.
Sasha aveva una mente vivace e un umorismo tagliente che rischiarava le ombre del mio maniero. Pian piano quel vuoto dentro di me sembrò ridursi.
Poi cambiò tutto. Un pomeriggio, avevo fretta di prendere una pompa per le gomme di una delle mie auto. Entrai di gran carriera nel garage, senza bussare — e la scena che mi si parò davanti mi gelò il sangue.
Sparpagliate sul pavimento c’erano decine di tele. Con il mio volto.
O, meglio, versioni grottesche di me stesso. In una ero incatenato al collo, in un’altra il sangue mi colava dagli occhi. In un angolo c’era un dipinto che mi ritraeva disteso in una bara.
Un’ondata di nausea mi travolse. Ecco come mi vedeva lei? Dopo tutto quello che avevo fatto per lei?
Uscìi prima che potesse accorgersi di me, il cuore a mille.
Quella sera, a cena, non riuscivo a togliere dalla mente quelle immagini. Ogni volta che guardavo Sasha, vedevo solo quei ritratti orribili.
Alla fine non ce la feci più.
«Sasha», dissi con voce tesa, «che cavolo sono quei quadri?»
La sua forchetta cadde clamorosamente sul piatto. «Di cosa parli?»
«Li ho visti», risposi, cercando di restare calmo. «I dipinti con me: le catene, il sangue, la bara. Cos’è tutto questo?»
Il suo volto si fece pallido. «Non volevo farti vedere…»
«E invece li ho visti», tagliai corto. «Mi dipingi come un mostro?»
Lei annuì, con lo sguardo pieno di vergogna. «Scusa.»
Mi appoggiai allo schienale, lasciando che il silenzio scendesse tra noi. Volevo perdonarla, capirla. Ma non ce la facevo.
«Penso sia meglio che tu te ne vada», dissi a voce fredda.
Gli occhi di Sasha si spalancarono. «Aspetta, ti prego…»
«No», la interruppi. «È finita. Devi andartene.»
La mattina dopo la aiutai a raccogliere le sue cose e la portai al più vicino rifugio. In macchina non pronunciò una parola, e nemmeno io. Prima di scendere, le porsi qualche centinaio di dollari.
Esitò, poi prese i soldi con mani tremanti.
Passarono settimane e non riuscivo a scrollarmi di dosso quel senso di perdita. Non solo per quelle tele inquietanti, ma soprattutto per la calda intimità che avevamo condiviso, qualcosa che non sentivo da anni.
Poi un giorno mi arrivò a casa un pacco. Dentro c’era un quadro, ma questa volta era diverso. Non c’era nulla di grottesco o deformato: un ritratto sereno di me, che catturava una pace che ignoravo di possedere.
Con il dipinto c’era un biglietto: il nome e il numero di telefono di Sasha scarabocchiati in fondo.
Il dito mi tremava sul pulsante di chiamata, il cuore batteva più forte di quanto non abbia fatto in anni. Temevo persino che bastasse un attimo per ripensarci. Poi, con fatica, premessi “Chiama”. Dopo due squilli una voce esitante rispose.
«Pronto?» la voce di Sasha tradiva un’incertezza, come se avesse percepito fossi io.
Schiarìi la voce. «Sasha. Sono io. Ho ricevuto il tuo quadro… è bellissimo.»
«Grazie. Non sapevo se ti sarebbe piaciuto. Volevo darti qualcosa di meglio di… beh, delle altre tele.»
«Non mi devi nulla, Sasha. Anch’io non sono stato del tutto giusto con te.»
«Avevi tutto il diritto di arrabbiarti». La sua voce si fece più ferma. «Quei dipinti erano la mia valvola di sfogo, e in realtà non riguardavano te. Tu eri lì, punto. Scusa.»
«Non devi scusarti, Sasha. Ti ho perdonata il momento in cui ho visto questo ritratto.»
Sospirò, quasi incredula. «Davvero?»
«Davvero», risposi con sincerità. Non era solo il quadro a farmi cambiare idea, ma la sensazione di aver perso qualcosa per paura di affrontare il mio stesso dolore. «E… beh, pensavo… che forse potremmo ripartire da capo.»
«Cosa intendi?» domandò.
«Che potremmo risentirci. Magari per cena, se ti va.»
«Mi piacerebbe», disse lei. «Molto.»
Decidemmo di incontrarci fra qualche giorno. Mi raccontò che con i soldi che le avevo dato aveva comprato vestiti nuovi e trovato un lavoro. Presto si sarebbe trasferita in un appartamento non appena avesse ricevuto la prima busta paga.
Non potei fare a meno di sorridere all’idea di cenare di nuovo con Sasha.