Lena stava in piedi accanto all’ampio recinto, socchiudendo gli occhi per la luce intensa che filtrava attraverso il tetto trasparente. Dentro era tutto come in un manuale: pulito, asciutto, cucce disposte ordinatamente, un lieve odore di antisettico e otto robusti cuccioli stretti l’uno contro l’altro alla madre, una pastore tedesco di nome Lada. Lena si accucciò, lisciandosi la tuta sportiva con il logo del suo allevamento. Lada sollevò il muso, il naso umido tremò verso la padrona, lo sguardo teso e leggermente ansioso.
— Brava, piccola. Che splendidi cuccioli… — mormorò Lena con voce affettata, prendendo con cautela un cucciolo. Esaminò zampe, orecchie, dentatura: tutto nella norma. Poi il secondo, il terzo, il quarto. Tutti e otto rispettavano lo standard. Era ciò che contava per Lena: il tipo di mantello, il temperamento, la struttura del pelo. In anni di lavoro aveva costruito una reputazione impeccabile per il suo allevamento, e ogni difetto avrebbe macchiato il suo perfetto profilo.
Mentre si apprestava a rialzarsi, notò Lada irrigidirsi e proteggere un angolo del recinto con il corpo. Ne emerse lentamente un nono cucciolo. Era nero come la notte, con la testa goffamente sollevata e una macchia arancione acceso sulla fronte.
— E questo chi è? — tornò indietro di scatto Lena, afferrando il cucciolo per la nuca con dita ormai dure. — Il nono… con un difetto. Da dove salti fuori tu?
Lada guaì piano, ma la padrona non si voltò nemmeno.
— Basta, Lada. Con una cucciolata così non servi più. — lo scaraventò sul pagliericcio. I fratellini si spostarono subito da lui, uno persino ringhiò.
Quando Lena uscì, il sole inondava il recinto. Nell’angolo, rannicchiato, rimaneva quel cucciolo nero — marchiato da una “colpa” che era diventata una maledizione.
Passarono due settimane. Lena era seduta in macchina, scorrendo appunti sul telefono, quando squillò sua sorella.
— Pronta, Galia. Che succede? — rispose senza particolare interesse.
— Kosta e Pashka compiono gli anni presto. Festeggeremo a casa. I bambini chiedono un cucciolo da un mese…
— Un cucciolo? Lo rompono in cinque minuti — sbuffò Lena.
— Sono bambini, non mollano. Hai qualcuno di “scarto”, vero?
Lena pensò subito a quel nero fuori standard. Un’ottima occasione per liberarsene.
— Ne ho uno. Dell’ultimo parto. Non è da esposizione, ma è sano. Maschio.
— Va bene. Facciamo crescere un po’, — esitò Galia.
Così fu deciso. Il regalo di compleanno, mascherato da premura, era in realtà un modo per disfarsene.
Quando a prenderlo arrivò Michalych, burbero custode dell’allevamento, Lada si allarmò subito. Lui aprì il recinto e si avvicinò lentamente all’angolo. Il cucciolo era cresciuto un po’, ma restava impacciato e ingenuo.
— Vieni, piccolo… — borbottò Michalych, evitando lo sguardo del cane. Lada fece un balzo, afferrò denti nell’aria, ma era troppo tardi: l’uomo già stava uscendo dal recinto, senza voltarsi, senza scuse.
Lena aspettava in macchina all’ingresso.
— Sbrigati, — disse, senza degnare il cucciolo di uno sguardo.
Nel cortile la festa dei bambini era già iniziata: palloncini, musica, odore di frittura. Due gemelli balzarono fuori:
— È mio! L’ho visto per primo!
— No, è mio! L’ho chiesto prima!
La portiera non era ancora chiusa che il cucciolo venne preso da quattro mani infantili. Lo strattonarono, trascinarono — ora da una parte, ora dall’altra. Lui squittì, indifeso e smarrito.
— Piano! — urlò Galia, correndo fuori. — Datemelo subito!
Lo afferrò meccanicamente e lo passò a uno dei bambini. A chi, non importava.
— Giocate, ma non romperlo — disse stanca, poi si ritirò in veranda da Lena, dove il tè si raffreddava.
Il cucciolo restò coi bambini che nemmeno lo guardavano: lo tiravano, lo lanciavano, legavano il guinzaglio alle altalene e lo facevano dondolare. Lui non capiva: cos’era “giocare”?
— Facciamolo drago! — gridò Kosta.
— No! Io sono un mago! — urlò Pasha, colpendo il cucciolo con una spada giocattolo.
Il cucciolo squittì, cadde. Gli girò la testa. Tentò di strisciare via, ma lo rincorsero di nuovo.
Si avvicinò alla porta, squittì più forte. Nessuno aprì. Tornò fuori, verso dove il dolore era ormai abitudine.
Il momento peggiore fu lo scivolo. Kosta ordinò:
— Adesso volerà!
Pasha lanciò il cucciolo in aria. Lui girò senza forze e ricadde a terra. Non sentì più una zampa.
I bambini si avventarono di nuovo: il cucciolo, stretto dalla paura, mordicchiò. Prima la guancia di Pasha, poi il polso di Kosta. Non forte, solo per difendersi.
Bastò.
— Ha morso! — urlarono entrambi.
Galia balzò in giardino in preda al panico. Dietro di lei Lena. Alla vista del sangue e delle lacrime, emanarono il verdetto:
— Fuori di qui. Subito!
I ragazzi applaudirono contenti. Lena si girò di scatto, prese il telefono e fece una chiamata.
— Michalych, puoi venire?
— Non c’è più, — risposero dalla cucina.
Galia guardò severa il giardiniere in tuta impolverata.
— Toglilo dalla proprietà. Prendi qualcosa, qualsiasi cosa! Ha morso i miei bambini!
L’uomo annuì silenzioso e si diresse verso il capanno. Il cucciolo rabbrividì — percepiva l’imminente pericolo. Il corpo si contrasse, le orecchie abbassarono, il respiro si fece affannoso. Non capiva le parole, ma sentiva: sarebbe arrivato altro dolore.
Incorse verso il cancello, ma era chiuso. Si voltò — il giardiniere avanzava con una scopa in mano, risoluto.
Il cucciolo balzò verso il prato, poi tra le aiuole, infine sulla ghiaia. Il corpo gli doleva, la zampa vacillava, ma la paura lo spingeva.
Poi, per caso, una macchina entrò nel cortile. Una donna scese con una scatola, senza chiudere la portiera. Il cancello si aprì un istante.
Il cucciolo si lanciò attraverso l’apertura, saltò fra i piedi della donna ed evaporò lontano. Dietro di lui echeggiavano urla, ringhi, passi pesanti, ma svanivano nel rumore del vento, nel battito del suo cuore.
Corse a lungo. Oltre il paese c’erano reti, rovi spinosi, radure umide.
Gli occhi gli lacrimavano, il naso bruciava per la polvere. Si fermò, bevve da una pozza — subito lo colse il vomito. La zampa si gonfiava, il respiro era affannoso.
Si accasciò sotto un cespuglio, col muso nella terra, e si spense.
In sogno gli apparve la madre. Il suo calore, la sua dolcezza, la lingua che gli lisciava il pelo. Poi di nuovo pugni, urla, dolore. Il cucciolo singhiozzava, rannicchiato.
La notte trascorse in un gelo profondo. Il cucciolo non si svegliò: esisteva solo fra.
All’improvviso il cespuglio si mosse.
— Ehi… sei vivo? — voce roca, da vecchio, ma gentile. — Dai, piccolino…
Il cucciolo non mosse neanche un pelo. Non aveva forze. Mani calde sollevarono delicatamente il suo capo.
— Ah… zampa, fianco… pieno di lividi. Sei scappato dalla guerra, eh?
Odore di fumo, terra, vecchio metallo. Un occhio si aprì a fatica. Di fronte a lui un volto incorniciato da barba grigia, rughe profonde e occhi gentili.
Il vecchio accarezzò l’orecchio, tastò le costole con cautela.
— Sei un vero combattente, — mormorò. — Ma chi ti ha ridotto così?
Lo sollevò. Il cucciolo sobbalzò, ma non oppose resistenza. In quelle mani c’era calore. Un calore particolare: senza dolore.
— Andiamo. Troviamo dell’acqua, poi vedremo.
Il cucciolo non sapeva chi fosse quel vecchio, ma per la prima volta non aveva paura.
Un rubinetto gocciolava. Il cucciolo annusò le prime gocce, poi cominciò a bere — titubante, poi con avidità. L’acqua era vera: senza odori, senza sapori chimici. Fresca, viva. Bevve finché non cadde di lato, stremato.
Il vecchio lo osservava in silenzio.
— Bevi, bevi… Io penso a te. Non ho nulla — mangio quel che trovo, dormo dove capita. Ma se ti lascio qui morirai di freddo.
Il cucciolo bevve fino all’ultima goccia. Il vecchio gli asciugò il muso con un lembo del mantello.
— Ti serve un nome. Non puoi restare “cane”.
Lo guardò negli occhi.
— Rex? No. Jack? Troppo eroico. Sai che c’è… sarai Amico. Perché ora sei mio amico. E io sono il tuo.
Il cucciolo abbaiò flebilmente, come se capisse.
La casa era vecchia e abbandonata, con finestre rotte e tetto lesionato. Dentro però era asciutta. In un angolo c’era una stufa. Andreich, ché così si chiamava il vecchio, accese il fuoco. Il cucciolo si rannicchiò accanto al calore e il dolore si attenuò.
Il cibo era scatolette e pane. Andreich divideva tutto a metà.
— Regola: metà per te, metà per me. È la nostra legge — masticava lentamente.
Passarono settimane. Il cucciolo crebbe, la zampa guarì, il pelo tornò lucido. Andreich lo addestrò: cibo solo su comando, niente abbai inutili, difendere la casa. Il cane era furbo e si impegnava. Voleva essere utile.
E la sera, quando il vento ululava e la stufa scoppiettava, il vecchio prendeva un boccale di acquavite e diceva:
— Lida, mia moglie, non amava i cani. Se n’è andata. E Tanya, la figlia… l’hanno portata via, dicevano fosse malata. Ho venduto tutto e glielo ho dato. Mi hanno ingannato. Se ne sono andate. Non una lettera.
Amico giaceva accanto, appoggiando il muso sulle ginocchia di Andreich. Lui accarezzava la sua schiena.
— Sei rimasto tu. Solo tu. Mio.
Arrivò un mattino gelido. La neve non era ancora caduta, ma l’aria era pesante. Andreich, avvolto nel capotto, sedeva accanto al fuoco.
— Oggi è il quarantesimo compleanno di Tanya… — sussurrò.
Amico non sapeva chi fosse Tanya, ma capiva che il padrone soffriva.
— Pensavo avrei dimenticato… ma non ci sono riuscito.
Si alzò, si avviò verso la strada con passi incerti ma decisi. Amico lo seguì. E proprio mentre il cigolio dei freni squarciava il silenzio, quando il metallo urtò la carne e il corpo cadde sull’asfalto, Amico ululò.
Andreich giaceva sul ciglio. Il viso insanguinato, le braccia distese. La gente corse ad aiutarlo. L’auto si fermò. Il cane fu trattenuto. Ululava, si dimenava, finché non crollò stremato.
Quella notte si liberò. Spezzò la fune. Cercò l’odore, lo seguì.
All’ospedale era un caos. Abbaió correndo tra i corridoi fino a fermarsi davanti a una porta. Abbaió ancora.
— Tengono in vita con le macchine. Niente parenti. Forse è il momento di staccare?
E in quel momento un abbaio ruppe il silenzio. Il monitor bip bip. Andreich si mosse leggermente.
— È lui… Amico…
Si riprese. Brodo, pappe, parole di conforto.
Poi la porta si aprì. Entrò una donna, decisa ma preoccupata.
— Papà?
Lui la guardò a lungo. Poi sussurrò:
— Tanya?…
— Sono io. Ti ho trovato dalle notizie. Quegli occhi…
Stettero accanto, mano nella mano. Amico stava lì, silenzioso.
— Mamma mi ha raccontato tutto prima di morire. Della casa, di te. Ho capito. Perdona…
Lui chiuse gli occhi. Non per il dolore, ma per il sollievo.
— Voglio che tu viva con noi. Con i miei figli. Con mio marito.
— Amico resta con me — disse lui.
— Certo. Ora siamo una famiglia.
Una settimana dopo era al centro di riabilitazione. Con la figlia, i nipoti e Amico.
Alla vecchia casa di campagna rimaneva solo una ciotola arrugginita, riempita d’acqua da qualcuno.
Perché la fedeltà non è una cosa. La fedeltà è amore.
E a volte l’amore riporta davvero a casa.