Irina stava in piedi vicino alla finestra, con lo sguardo perso nella neve che cadeva su Pietroburgo. La telefonata con suo marito stava per terminare – una conversazione normale, del tutto priva di risvolti particolari, come tante altre nei quindici anni di matrimonio. Jura riferiva della sua “missione” a Mosca: tutto procedeva bene, gli incontri erano andati a buon fine, sarebbe tornato fra tre giorni.
«Va bene, caro, allora ci sentiamo più tardi» – Irina allontanò il telefono dall’orecchio, pronta a premere il tasto rosso, ma qualcosa la fermò. Una voce femminile, melodiosa e giovane, si fece distintamente sentire dall’altra parte:
«Juročka, allora vieni? Ho già riempito la vasca…»
La mano di Irina si bloccò. Il cuore le mancò un battito, poi riprese a battere freneticamente. Riappoggiò il telefono all’orecchio, ma udì solo il segnale di linea occupata – lui aveva già chiuso.
Irina si lasciò cadere lentamente nella poltrona, le gambe le tremavano. Nella mente le frullavano pensieri frammentari: «Juročka… la vasca… che vasca in trasferta?» La memoria le riportò alla mente le stranezze degli ultimi mesi: le trasferte sempre più frequenti, le chiamate mattutine che lui faceva sul balcone, la nuova fragranza in macchina.
Le mani le tremavano mentre apriva il portatile. Entrare nella sua casella di posta fu un gioco da ragazzi – la password l’aveva imparata fin dai tempi in cui tra loro regnava ancora fiducia e onestà. Biglietti, prenotazioni… «Suite per novelli sposi» in un albergo a cinque stelle nel cuore di Mosca. Per due persone.
Nella posta trovò anche le conversazioni: Kristina. Ventisei anni, istruttrice di fitness. «Amore, non ce la faccio più. Mi avevi promesso che ti saresti separato tre mesi fa. Fino a quando devo aspettare?»
Una nausea la avvolse. Le vennero in mente il loro primo appuntamento: lui era un semplice manager, lei una giovane contabile. Avevano messo da parte i soldi per il matrimonio vivendo in un monolocale. Esultavano per i primi successi, si sostenevano a vicenda nei momenti difficili. Ora lui era un direttore commerciale di successo, lei la contabile capo della stessa azienda, e tra loro si apriva un abisso lungo quindici anni e largo ventisei anni di quella Kristina.
Nella stanza d’albergo, Jura camminava nervoso in tondo.
«Perché l’hai fatto?» – la voce gli tremava per la rabbia.
Kristina era distesa sul letto, con un accappatoio di seta scivolato sulle spalle. I suoi lunghi capelli biondi erano sparsi sul cuscino.
«E cosa sarebbe?» – sbadigliò lei come un gatto soddisfatto. – «Sei stato tu a dirmi che ti saresti lasciato.»
«Sarò io a decidere quando e come farlo! Hai capito cosa hai combinato? Irina non è scema: ha capito tutto!»
«E meno male!» – Kristina si alzò di scatto sul letto. – «Sono stufa di stare nascosta in albergo come un’amante. Voglio andare con te nei ristoranti, incontrare i tuoi amici, essere finalmente tua moglie!»
«Ti comporti come una bambina» – Jura ringhiò tra i denti.
«E tu come un codardo!» – lei balzò in piedi, si avvicinò a lui. – «Guardami! Sono giovane, bella, posso darti dei figli. Ma lei? Contare i tuoi soldi?»
Jura la afferrò per le spalle: «Non osare parlare così di Irina! Non sai nulla di lei, di noi!»
«So abbastanza» – Kristina si divincolò. – «So che non sei felice con lei. Che è sommersa dal lavoro e dalla routine. Quando è l’ultima volta che avete fatto l’amore? E quando siete andati in vacanza insieme?»
Jura si voltò verso la finestra. Là, nella San Pietroburgo innevata, il loro mondo crollava. Quindici anni di vita insieme si sgretolavano, come un castello di carte, per una frase di una ragazza capricciosa.
Irina sedeva al buio in cucina, stringendo una tazza di tè ormai fredda. Sul telefono decine di chiamate perse da suo marito. Non rispondeva. Cosa avrebbe potuto dire? «Amore, ho sentito la tua amante chiamarti nella vasca»?
La memoria le mostrava i fotogrammi della loro vita: lui che le regalava un anello inginocchiandosi in mezzo al ristorante; l’emozione mentre entravano nel loro primo bilocale; lui a consolarla quando aveva perso sua madre; i festeggiamenti per la sua promozione…
Poi erano arrivate le crisi in ufficio, i prestiti, i lavori in casa… Quando avevano parlato davvero, l’ultima volta? Quando si erano stretti sul divano guardando un film? Quando avevano progettato il futuro?
Il telefono vibrò di nuovo. Stavolta arrivò un messaggio: «Ira, parliamo. Ti spiego tutto.»
Cosa c’era da spiegare? «Sono invecchiata? Sono impantanata nella routine? Una giovane istruttrice soddisfa meglio i tuoi bisogni?»
Irina si avvicinò allo specchio. Quarantadue anni. Rughe agli angoli degli occhi, capelli ingrigiti che tingeva ogni mese. Quando era iniziata quella stanchezza, quell’abitudine a vivere secondo un filo orario, quella corsa al sicuro?
«Jura, dove sei?» – Kristina lo accolse con aria severa quando rientrò in stanza dopo un altro tentativo di chiamata.
«Adesso no» – lui si lasciò cadere sulla poltrona, slacciando la cravatta.
«No, adesso!» – lei si piantò davanti a lui con le mani sui fianchi. – «Voglio sapere che cosa succederà. Sai che dobbiamo decidere.»
Jura la guardò – bella, sicura, piena di energia. Com’era Irina quindici anni prima. Come aveva potuto fare questo a lei?
«Kristina» – passò una mano sul volto stanco – «hai ragione. Dobbiamo decidere.»
Il suo viso si illuminò: «Amore! Sapevo che avresti fatto la scelta giusta!»
«Sì» – lui la allontanò dolcemente – «dobbiamo chiudere.»
«Cosa?!» – lei sbiancò.
«È stato un errore» – lui si alzò – «amo mia moglie. Sì, abbiamo problemi. Sì, ci siamo allontanati. Ma non posso… non voglio cancellare tutto ciò che abbiamo vissuto.»
«Sei un codardo!» – le lacrime rigarono il suo volto.
«No, Kristina. Codardo lo sono stato quando ho iniziato questa storia. Quando ho mentito a una donna che per quindici anni ha condiviso con me gioie, dolori, vittorie e sconfitte. Hai ragione, non sono felice. Ma la felicità va costruita, non cercata altrove.»
Il campanello suonò intorno a mezzanotte. Irina capì subito chi fosse – tornato con il primo volo.
«Ira, apri, ti prego» – la voce via porta suonava smorta.
Lei aprì. Jura era sulla soglia, in abito sgualcito, non rasato, con lo sguardo colmo di rimorso.
«Posso entrare?»
Lei fece un passo indietro in silenzio. Si avviarono verso la cucina – là dove un tempo sognavano il futuro, prendevano decisioni importanti.
«Ira…»
«Basta» – lei alzò una mano – «so tutto. Kristina, ventisei anni, istruttrice di fitness. Ho letto la tua posta.»
Lui annuì, senza parole.
«Perché, Jura?»
Lui rimase in silenzio a guardare la città notturna dalla finestra.
«Perché sono un codardo. Perché ho avuto paura che fossimo diventati due estranei. Perché lei mi ha ricordato te – la te di una volta, piena di energia e di progetti.»
«E adesso?»
«Adesso…» – si voltò verso di lei – «voglio rimediare. Se me lo permetti.»
«E lei?»
«È finita. Ho capito che non posso perderti. Non voglio perderti. Ira, so di non meritare il tuo perdono. Ma proviamo a ricominciare? Andiamo dallo psicologo, passiamo più tempo insieme, torniamo ad essere quelli di un tempo…»
Irina lo guardò – invecchiato, imbiancato, infinitamente familiare. Quindici anni non sono un numero. Sono ricordi condivisi, abitudini, battute che capiscono solo loro. È la capacità di tacere insieme. È il perdono reciproco.
«Non lo so, Jura» – per la prima volta versò lacrime – «io proprio non lo so…»
Lui la strinse in un abbraccio. Lei non si allontanò. Fuori, la neve continuava a cadere, coprendo San Pietroburgo di un manto bianco.
E là, in una stanza d’albergo a Mosca, una ragazza piangeva per la crudele verità: l’amore vero non è passione né romanticismo. È una scelta che va rinnovata ogni giorno.
Qui, in cucina, due persone non più giovani tentavano di raccogliere i cocci della loro vita. Li aspettava un lungo cammino – tra rancori e diffidenze, sedute dallo psicologo e conversazioni difficili, tentativi di conoscersi di nuovo. Ma entrambi sapevano: a volte bisogna perdere qualcosa per capirne il valore.