«Rinunciamo, almeno uno lo lasceremo all’orfanotrofio», mi disse mio marito quando entrò nel reparto maternità.

ПОЛИТИКА

Anna non è mai stata di quelle che sognano le stelle in cielo. È nata e cresciuta in un villaggio, in una umile famiglia contadina, dove un pezzetto di burro sul pane era già considerato un piccolo lusso. La mattina si occupava delle galline, di giorno lavorava nell’orto e la sera aiutava la madre. È cresciuta modesta, senza pretese, ma buona e laboriosa.

Sin da giovane i ragazzi del paese le facevano la corte, uno dopo l’altro. Ma il cuore di Anna rimaneva indifferente. Finché un’estate non arrivò nel villaggio Mychajlo, un uomo imponente e sicuro di sé, dieci anni più grande di lei. Si diceva che in città possedesse diversi negozi di frutta e verdura: per gli standard rurali, un ricco. Intorno a lui le donne si agitavano come api sul miele, eppure lui notò Anna.

— Tu non sei come le altre — le disse una sera, mentre camminavano lungo il fiume — con te mi sento a mio agio.

Lei arrossì e all’inizio non ci credette. Dopo qualche mese Mychajlo le chiese di sposarlo.

Organizzarono un matrimonio semplice, nel locale del paese. Ma a Anna non serviva la sontuosità: bastava che lui fosse lì, che la amasse. Si impegnava con tutto il cuore a essere una buona moglie: cucinava, lavava, riordinava, stirava le sue camicie. Al mattino andava al mercato a comprare verdure fresche, la sera preparava la cena calda. Sembrava che Mychajlo fosse soddisfatto, ma… distaccato. Riservato. Non la guardava negli occhi, non le prendeva la mano e neppure diceva “ti amo”.

Anna cercava di non farci caso: «Gli uomini sono diversi da noi», pensava. Credeva che col tempo si sarebbe abituato e avrebbe aperto il suo cuore. Così, quando una sera a cena lui disse che era ora di pensare ai figli, il suo cuore balzò di gioia. Ecco la prova che voleva una famiglia vera.

Per la prima volta si sentì davvero felice.

La vita scorreva tranquilla. Anna non si lamentava: la casa era in ordine, il marito lavorava, i soldi non mancavano. Sognava di preparare le frittelle per il figlio al mattino e di leggere fiabe alla figlia la sera. Mychajlo parlava sempre più spesso di “bambini” al plurale, e Anna sperava in silenzio che tutto si realizzasse presto.

E così accadde.

Quando sul test apparvero due linee, Anna scoppiò in lacrime di gioia. Aspettava quel momento: avrebbero finalmente formato una famiglia completa.

Mychajlo reagì con freddezza, quasi con distacco:
— Capito. Allora dobbiamo prepararci.

Anna sorrise ironica, cercando di contenere un lieve disappunto. «Gli uomini non sanno mostrare i sentimenti», si consolò. L’importante era che non avesse detto “mi oppongo” e che non se ne fosse andato.

Si iscrisse alle visite di controllo, cominciò a prendere vitamine e a passeggiare ogni giorno. Tutto andava bene, finché un’ecografia non le sconvolse il mondo.

— Ha tre gemelli — dichiarò la dottoressa con voce abitudinaria — due maschietti e una femminuccia.

Per un attimo gli occhi di Anna si annebbiano. Tre. Non uno, non due, ma tre bambini dentro di lei. Tre cuori.

Uscì dallo studio come in un sogno. Si sedette su una panchina vicino all’ospedale, appoggiò la mano sul ventre e sussurrò:
— Ma… davvero?

Da un lato provava felicità: insolita, spaventosa, quasi fiabesca. Dall’altro, timore. Non per sé, ma per Mychajlo.

Immaginava già il suo sguardo accigliato, la fronte corrugata mentre avrebbe esclamato:
— Tre? Sei impazzita? Dove vogliamo mettere tre bambini?

Lo conosceva bene, quell’uomo cauto e calcolatore che non spendeva mai più del necessario, che le comprava un vestito solo in saldo e rifaceva i conti in anticipo.

Decise allora di tacere. Fino a quando fosse ancora possibile. Fino a fargli abituare l’idea di diventare padre, e solo dopo rivelargli la verità.

Carezzò il pancione, culla di tre speranze, e ripeté:
— Voi siete miei. Qualunque cosa accada, non vi abbandonerò.

Il tempo passava e il ventre cresceva rapidamente, troppo. Anna percepiva sempre più gli sguardi della gente per strada e nascondere l’emozione diventava difficile. Dentro di lei c’erano tre vite. Tre. Piccole, vive, reali. E Mychajlo, sembrava, non si accorgeva di nulla.

Continuava a tornare tardi, a evitare le conversazioni:
— Sono stanco. Parleremo domani.
Ma il domani non arrivava mai.

Una sera, durante la cena, Anna versò il brodo, si sedette accanto a lui e disse:
— Misha… sono stata all’ecografia.
Lui non staccò gli occhi dal telefono:
— E allora? Tutto a posto?

Lei esitò:
— Non è un solo bambino.
— Gemelli? — sbuffò lui, stanco.
— Tre gemelli — rispose lei con un filo di voce.
Lui alzò lo sguardo, come se non comprendesse:
— Sul serio?
— Sì. Due maschietti e una femminuccia.

Rimase in silenzio, poi si alzò senza finire il pasto, prese le chiavi e disse:
— Ho un appuntamento. Parliamo dopo.

La mattina seguente Anna fu colta da un malore. La testa le girava. Mentre lavava i piatti si piegò dal dolore: contrazioni. Panico.

Mychajlo era irraggiungibile, telefono spento. Lei chiamò l’ambulanza, preparò la borsa e partì da sola verso la clinica.

Il parto fu difficile, ma i tre gemelli nacquero sani: tre minuscole creature.

Due giorni dopo squillò il telefono. Era Mychajlo.
— Dove diavolo sei?! — urlò. — Te ne vai senza dirmi nulla! Io lavoro e tu…
— Sono in ospedale, Misha — rispose pacata — Ho partorito.
— Cosa…?

Quando arrivò, teneva in mano un sacchetto di plastica con delle fasce. Vide i bambini e impallidì:
— Sono… tutti nostri?

Anna annuì.

Si sedette. Rimase in silenzio a lungo, poi risalutò:
— Forse uno… lo mettiamo in orfanotrofio? Almeno uno, per risparmiare.

All’inizio Anna non credeva che fosse serio. Poi si alzò, si avvicinò e disse con calma:
— Prendi le tue fasce e vattene.

Mychajlo esplose in un urlo, accusandola di ingenuità, ripetendo che l’aveva “fregato”, lamentandosi dei soldi, borbottando che «non è detto che siano davvero suoi figli». Se ne andò sbattendo la porta e non fece più ritorno.

Anna guardò fuori dalla finestra. Sillouette della sua valigia sul davanzale. E lì, in tre culle di vetro, dormivano i suoi bambini. Tutti e tre. La sua felicità. Il suo destino.

Non pianse. Né quel giorno, né la mattina della dimissione dall’ospedale. Non aveva tempo. Aveva tre neonati tra le braccia e il silenzio alle spalle. Mychajlo era sparito, il telefono muto. Nessuna scusa, neppure un centesimo di aiuto. Solo l’eco delle sue parole: «Forse uno in orfanotrofio…»

Anna chiamò la madre. Con voce tremante, ma con fermezza:
— Mamma, posso tornare a casa?

Il padre arrivò con la vecchia “Niva”. Si fermò a guardare i nipotini e, in silenzio, disse:
— Ce la faremo.

In casa tutto era come un tempo: la vecchia casetta, la stufa, l’odore di latte e di terra umida.

Di notte il babbo si alzava per cullarli. La mamma lavava le fasce, aiutava in ogni cosa. E Anna, non appena ripresasi un po’ dal parto, trovò lavoro di notte: confezionava verdure in una cooperativa agricola. Di giorno dormiva a tratti, ma per i suoi bambini aveva sempre un sorriso.

Mychajlo non chiamò più. Né una settimana, né un mese dopo. Non chiese dei bambini, non si informò sui loro nomi e non mandò un centesimo.

Anna alla fine prese coraggio e lo richiamò. La sua voce era dura e stanca:
— Sei impazzito? Ho già abbastanza problemi. Niente assegni, non un centesimo. Mi organizzerò io, pagherò mezzo stipendio.

Anna sospirò in silenzio.

Quella sera sedeva sulla veranda. La mamma portò una tazza di latte caldo e si sedette accanto a lei.
— Sai, — cominciò — mia nonna durante la guerra si spalmava il viso con un unguento alle erbe. Proteggeva dalle ustioni e attenuava le rughe. Poi lo vendeva al mercato, per dare da mangiare ai figli.

Anna sorrise:
— Pensi che qui apra un salone di bellezza?

— Ma provaci. Tutto ciò che oggi è grande, una volta nasce da un piccolo seme.

Anna decise di provarci davvero. Quella stessa notte, mentre i piccoli dormivano, andò in cucina, prese un vecchio quaderno e annotò tutto ciò che ricordava: camomilla, menta, iperico, un po’ di miele, un cucchiaio d’olio e quello “ingrediente segreto” che la mamma le aveva sussurrato come fosse magia.

Preparò l’infuso, lo lasciò raffreddare, lo applicò sul volto suo e della madre. La mattina la pelle era liscia come quella di un bambino. Anna rise, ma sentì un calore nuovo nel cuore. Speranza.

Una settimana dopo fece provare la maschera a un’amica di casa vicina. Poi un’altra. La domanda crebbe e Anna cominciò a imbottigliare il prodotto e venderlo al mercato locale. Poi creò una pagina sui social network e la promosse. Gli ordini aumentarono a poco a poco.

Col tempo dovette affittare un piccolo locale nel centro del distretto. Fece dei lavori, mise un banco, acquistò barattoli e confezionò i prodotti. I genitori l’aiutarono. I soldi cominciarono a entrare. Anna si iscrisse come imprenditrice individuale, ottenne le certificazioni, assunse altre donne del villaggio. Ormai non era più una semplice crema, ma un vero e proprio marchio.

Trascorsero tre anni. Anna divorziò ufficialmente da Mychajlo senza chiedere neppure un assegno.

Ora aveva un appartamento in città: grande, luminoso, con tre camerette per i bambini. Frequentavano una buona scuola, praticavano nuoto e pittura, e ogni volta che chiamavano “mamma” con quel calore le si fermava il cuore. Ai genitori aveva comprato una casa nuova.

Un giorno, durante un incontro di lavoro, vide Mychajlo.

Grigio, con i capelli radi, in un giaccone economico, stava in un angolo sfogliando delle carte. Quando la vide, sbiancò. Anna si avvicinò sicura, in un completo elegante, la schiena dritta e lo sguardo deciso.
— Ciao, Misha — disse — Non pensavo ci saremmo incontrati.

Lui borbottò qualcosa sul fatto di essere contento di vederla, imbarazzato e nervoso.
— Dicevi che senza di me non ce l’avresti fatta — mormorò, tentando un sorriso — E invece guarda…

Anna sorrise appena.
— Come ricordi, al kolkhoz non sono marcita. Sono sopravvissuta. E ho cresciuto tre bambini.

Mychajlo rimase a guardarla in silenzio. Sei mesi dopo, nella vita di Anna arrivò Andrij, un uomo che non temeva i pannolini, leggeva libri ai bambini e le portava il thermos del tè quando era in ritardo al lavoro. Non prometteva stelle né illusioni: c’era, semplicemente. Ogni giorno.

E una mattina Anna si svegliò, guardò i suoi tre bambini addormentati e l’uomo accanto a sé e capì: finalmente era a casa. Nella sua realtà vera, imperfetta, ma felice.