In fretta verso la fattoria, l’autista del trattore consegnò le chiavi di casa a una donna senzatetto con un bambino… E quando tornò, sbirciò cautamente dalla finestra — e rimase pietrificato.

ПОЛИТИКА

Semion stava immobile davanti alla finestra, come piantato al suolo. Il cuore si arrestò, il respiro si fermò. Fuori dal vetro, nella luce fioca del crepuscolo, nella casa bruciava una luce. Non una luminosa, ordinaria — no. Era una luce strana, morbida, come se una lampada fosse accesa su una tavola festiva dimenticata da anni e anni.

Ma non fu questo a togliere il fiato a Semion. Accanto al vetro, nella penombra della sala, stava una donna. Indossava un abito che pareva fuori moda persino per il villaggio — lungo, scuro, con un ricamo sbiadito lungo l’orlo. Il viso era pallido, quasi trasparente, e tra le braccia teneva un bambino il cui piccolo corpo tremolava appena, come una minuscola fiamma.

Poi si voltò. E lo guardò dritto negli occhi.

Lo sguardo era colmo di tristezza, ma non solo. Nel profondo di quegli occhi, Semion lesse qualcos’altro — più una domanda che paura. Qualcosa di antico, qualcosa che non poteva appartenere a questo tempo.

Corse verso la porta, le gambe cedettero, il cuore batteva come se volesse uscire dal petto. La chiave nella serratura era fredda come un vento d’inverno, ma riuscì comunque a girarla. La porta si aprì con un leggero cigolio, troppo lieve per qualcuno che stava dentro.

Silenzio.

La casa era esattamente com’era sempre: l’odore del legno, il calore della stufa, il cigolio delle assi sotto i piedi. Ma tutto sembrava stranamente diverso. Come se fosse entrato nei ricordi di un altro, in una vita altrui.

Sul tavolo giaceva una lettera.

La carta era vecchia, ingiallita, con i bordi consumati. Semion la prese tra le mani con cautela, come per non disturbare la pace. Le lettere erano precise, leggermente arrotondate, femminili:

«Per favore, se qualcuno troverà questa lettera… Non so dove andare con il bambino. Siamo stati cacciati. Non bussiamo più. Se succede qualcosa — che almeno qualcuno si ricordi di noi. Masha e il suo piccolo figlio Vanechka.»

La data nell’angolo: 8 giugno 1956.

Semion strinse la carta tra le dita, sentendo la pelle punteggiata di brividi. Non poteva essere uno scherzo. Non poteva essere una coincidenza.

Si girò. Vicino alla stufa, sul pavimento, giaceva una bambola. Di porcellana, con un braccio rotto, capelli aggrovigliati dal tempo. Era sicuro — quel giocattolo non c’era prima. Né stamattina, né ieri, né un anno fa.

Semion corse fuori sul portico. L’aria si fece densa, il cielo di un grigio-azzurro come prima del temporale. Sulla strada — vuoto. Nessuna impronta, nessuna voce, nessun indizio che qualcuno fosse passato di lì. Solo il vento agitava foglie secche e, lontano, si udiva uno scricchiolio.

La mattina si alzò con la nebbia. Fitta, tenace, come se la terra volesse nascondersi da qualcosa di invisibile. Semion esitò a uscire a lungo, ma i pensieri non lo lasciavano in pace. Doveva raccontare a qualcuno. Anche solo per tranquillizzare la propria anima.

Mentre camminava verso il poliziotto del villaggio, i pensieri gli svolazzavano nella mente come uccelli in gabbia. Ricordò la donna della mattina — viva, concreta. Come aveva accettato le chiavi con gratitudine, come aveva parlato della sua condizione di senzatetto, del desiderio di «un po’ di riposo». E il bambino… quel bambino aveva riso. Rideva guardando dritto negli occhi di Semion, come se lo riconoscesse.

«Hai perso completamente la testa, fratello», disse il poliziotto, ascoltando il racconto. «Chi ti ha mostrato quella donna?»

Nessuno gli credette. Tutti liquidarono la sua storia con un’alzata di spalle. Solo la vicina, la vecchia Marfa, fece il segno della croce e bisbigliò:

«Allora li hai visti… Masha, l’orfanella che si congelò qui settanta anni fa. Chiese ospitalità, ma la gente — di pietra. Quella stessa notte.»

Semion rimase in silenzio. Non voleva credere ai fantasmi. Ma non poteva nemmeno bollare quanto accaduto come sciocchezze.

Allora ricordò: la donna di quella mattina era viva. Aveva percepito il suo respiro, visto il suo sorriso, udito le risate del bambino. E improvvisamente capì: forse non era Masha? Forse era lei a venire per avvertire dal mondo altro? Forse Masha non era tornata per sé — ma per gli altri? Per ricordare che non si può voltare le spalle a chi chiede aiuto?

Semion decise che quella casa sarebbe rimasta aperta d’ora in poi. Non solo una casa — un rifugio per chi non ha più un luogo dove andare. Lasciò la bambola al suo posto — sul davanzale, accanto ai fiori. A volte, soprattutto la sera, una luce strana baluginava nei suoi occhi di vetro — come se qualcuno la stesse osservando.

I mesi passarono uno dopo l’altro. Il tempo scorreva, ma la sensazione di una presenza non lo abbandonava mai. Qualche notte si svegliava per lievi risate o un fruscio dietro il muro. Ma, ogni volta che si alzava, non trovava nulla.

Poi, all’inizio della primavera, bussarono di nuovo. Piano, con discrezione, come se temessero di disturbare. Semion non esitò. Aprì subito.

Una donna. Un bambino in braccio. Stanchi, infreddoliti, ma vivi.

«Avanti», disse. «Qui c’è sempre un angolo per chiunque ne abbia bisogno.»

Entrò, e nei suoi occhi, per un istante, Semion vide qualcosa di familiare. Non un volto, non dei lineamenti — ma un’espressione. Gratitudine. Sollievo. E un po’ di luce.

Olya si rivelò una persona riservata ma gentile. Suo figlio Vanya era un bimbo vivace e curioso che spesso afferrava il dito di Semion e rideva come se lo conoscesse da sempre.

Il nome Vanya provocava in Semion un lieve brivido ogni volta. Coincidenza? Forse. Ma dopo l’episodio della lettera, non credeva più alle coincidenze.

Una sera, quando mancò la corrente, Olya chiese una candela. La posizionò sul tavolo, si sedette accanto e sussurrò:

«Non so perché i miei piedi mi abbiano condotta fin qui… Ma sembra che qualcuno mi aspettasse. Come se la casa stessa mi avesse sussurrato: “Vieni…”»

Semion guardò la bambola. In quel momento i suoi occhi — benché sapesse fosse impossibile — parvero scintillare. La fiamma della candela tremolò, come se qualcuno l’avesse soffiata con delicatezza.

Più tardi, in soffitta, in un vecchio baule, Semion trovò una fotografia. In bianco e nero, consumata, con i bordi arricciati. Ritraeva una giovane donna dai capelli scuri e un bambino di circa cinque anni, gli occhi gentili.

La didascalia recitava:
«Maria e Vanechka. 1955.»

La consegnò a Olya. Lei impallidì. Le dita le tremarono mentre prendeva la foto.

«Ne avevo una proprio uguale a casa…» sussurrò. «Mamma diceva fossero la mia trisavola e il mio tris-zio, morti in circostanze strane. Ma nessuno ha mai detto dove…»

Semion sentì l’aria della casa farsi calda, come se qualcosa stesse per concludersi, come se un cerchio si stesse chiudendo.

Olya rimase. Non subito, ma pian piano divenne parte della casa. Semion non la pressò, non indagò. Le diede solo spazio, tempo e, soprattutto, fiducia.

Cominciò a stare più spesso in casa, lavorò meno in fattoria. A volte preparavano il tè insieme, guardavano il tramonto o semplicemente restavano in silenzio, ascoltando il vento nel camino.

Una mattina di primavera, Semion si accorse che la bambola era sparita. Era svanita. Né caduta, né portata via — dissolta nel nulla. Cercò in tutta la casa, ma non la trovò mai.

Quella sera, sotto il davanzale, trovò un nuovo biglietto. La carta era fresca, ma la calligrafia — la stessa. Femminile, arrotondata, un poco affaticata.

«Grazie. Siamo a casa.»

Semion sorrise tra le lacrime. Non sapeva come spiegare ciò che era accaduto. Ma sentì che Masha e Vanechka avevano finalmente trovato pace. E che lui, Semion, aveva avuto l’opportunità di ricominciare. Non più da solo, ma con la famiglia che aveva creato, al di là del tempo, del destino e dei fantasmi del passato.

Epilogo

Da allora, la porta di casa di Semion non ebbe più serratura. Sul tavolo c’era sempre il tè. E un letto riscaldato dal fuoco. Sapeva: chiunque vi entrasse avrebbe trovato non solo un rifugio — ma un frammento di sé. E forse qualcuno dal passato.

E qualche volta, nelle sere tranquille, quando il vento giocava con le tende e la candela consumava l’ultimo filo di luce, la casa risuonava di risate di bambini. Soffuse, gentili, come se provenissero dal cuore stesso del tempo.